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1995 – Włodzimierz Kunz  - "Ricordi di un passato lontano“

1995 – Adam Brincken - "Eco di una presenza“
2000 – Adam Brincken - "In cammino verso due mondi“
2005 – Roman Lewandowski - "Qui non si tratta di sangue“ 

1995 - Włodzimierz Kunz - "Ricordi di un passato lontano"

Le immagini di Izabella Pajonk, cosi’ come le sento io, evocano ricordi di un passato lontano,

di un’altra epoca. La forma delle composizioni, la loro fattura e tematica testimoniano del contatto

molto intimo e un po’ misterioso dell’autrice con le sue visioni.

Tale pittura puo’ essere concepita diversamente, come una materia a se’ stante o come tecnica interessante, oppure anche come un mondo complicato di significati che fanno sorgere la  necessita’

di una compartecipazione al mistero propostoci dal pittore.

Se si ascolta bene, si puo’ scoprire la presenza, in queste immagini, della musica di sussurri e brusii.



prof. Włodzimierz Kunz
Cracovia, 1995

1995 - Adam Brincken - "Eco di una presenza"



E’ un vero piacere ascoltare, e ancor piu’ leggere, e ancor piu’ guardare le immagini di Izabella Pajonk. Ascoltare e guardare, sentire una traccia, un segno, un’ombra, l’eco di una presenza, 

l’effimero che rimane.



Le immagini bianche, azzurro argentate e calde, ocra giallo-dorate sono piene di tocchi,

di presenza di piani e di spazi piccoli e grandi, che si conpenetrano, che si armonizzano.



Questa „eco di una presenza” si fa notare a volte, delicatamente distinta dal resto tramite una diversa gradazione di colore oppure tramite la piattezza di una macchia di cio’ che rimane della figura dell’uomo o, proprio, della sua ombra.


Queste immagini sono piene di musica, di poesia, proprio per la capacita’ di far incontrare tanti mezzi espressivi diversi. Questi „strumenti e queste parole” ci parlano di una persona straordinaria,

che anche nell’espressione scritta, in quell’incontro armonico di polifonia poetica e di riflessione sulle fonti della propria pittura, sembra essere riuscita, tra „il tumulto di pensieri imbrigliati, di sentimenti incomprensibili”, io aggiungo:  nella contemporaneita’ in quello che e’ qui e adesso, a far fermare noi tutti, a darci un attimo di respiro per farci raggiungere il nostro intimo in un altro modo, comunque per darcene l’opportunita’.​​


prof. Adam Brincken
Cracovia, 1995

2000 - Adam Brincken - "In cammino verso due mondi"

La pittura della Sig. Izabella Pajonk è uno specifico cammino verso due mondi:

uno, descritto dalla luce, dalla materia grumosa, dalla ruvidezza della terra,

dal colore del cielo, dal calore del sole, è la natura, 

l’altro è la cultura, il ricordo di una costruzione veduta una volta, di antiche colonne,

di una torre pendente, di un mercatino medievale e di finezze moresche.


I quadri sono composti in modo tale che lo spettatore abbia la sensazione della propria presenza in entrambi i mondi. Il rettangolo del quadro ci esorta a entrare dentro e fermare lo sguardo a distanza “faccia a faccia”. Ci invita a toccare il ruvido, di sentire la temperatura, di guardare le figure delle ombre, forse per trovarsi come dall’altra parte del quadro insieme all’autrice, quasi un attimo prima del primo tocco del pennello.


Penso che questo bisogno di avvicinarsi risulti dalla volontá di conoscere, quasi percepire il mondo, entrambi i mondi, quello della natura e quello della cultura.


Da alcuni anni Izabella Pajonk fotografa.

E qui, come nei suoi quadri, è con l’obiettivo della macchina fotografica vicino al singolo uomo,

alla situazione, a un muro scrostato, a interni abbandonati.  A queste fotografie conferisce il suo colore. Di solito usa il contrasto tra il sepia e il celeste.
Ció che rende queste fotografie diverse, è il modo di ricerca della luce. Non si nasconde piú nei recessi della terra o degli edifici, vola nell’aria, penetra le superfici e gli spazi, crea perfino un’altra realtá.


Quanto vi è in tutto ció della luce interiore dell’artista,

e quanto invece della seduzione della luce vibrante del sud europeo?
O forse devono essere insieme?


Come la natura con la cultura, l’esperienza con la creazione, come l’artista e la sua opera, infine come l’artista e lo spettatore che intraprende il colloquio tramite le immagini e grazie ad esse.
Credo che nella persona di Izabella Pajonk ritroviamo un attegiamento straordinariamente concentrato su sensazioni ed esperienze del mondo visibile, e sono proprio queste sensazioni ed esperienze ad essere garanzia dell’originalitá di questa pittura nascente.



prof. Adam Brincken

Cracovia, 2000

2005 - Roman Lewandowski - "Qui non si tratta di sangue"

Izabella Pajonk ciclicamente si sposta da un posto all’altro del mondo.

I suoi percorsi vanno dalla Slesia e dal quartiere ebraico di Cracovia, passando per l’Italia

e il Vicino Oriente fino alle lontane Indie e al Nepal.

In ogni viaggio non può mancare il suo taccuino d’appunti: la macchina fotografica.

Con il suo aiuto registra , crea e stimola quelle tracce la cui immagine – trasformata – ritroviamo nel suo diario digitale, nella pittura a olio e negli appunti pubblicati quà e là.

Queste opere possono essere ammirate in riviste cartacee e in rete, in libri e gallerie polacche e straniere.

I lavori della Pajonk funzionano come insiemi integrali, talvolta creano cicli visuali maggiori o paraletterarii (ad es. “Alla ricerca del mandala”, “Vivere”, “La lanterna magica nel labirinto ad arcate”, “Singer”), è importante però sottolineare che l’iscrizione testuale non è un commento, bensì uno dei componenti dell’attività artistica.



La produzione artistica di Izabella Pajonk è concentrata sulle giunture e cicatrici del mondo visibile

che si rivelano in ritmi mandalici, nei disegni degli intonaci ammuffiti, nel legante del chiaroscuro. Sarebbe tuttavia errato voler vedere in queste opere solamente atmosfere e stati d’animo magistralmente espressi. I contorni sfocati, le deformazioni, talvolta una soggettività nel documentare la realtà che può ricordare Michael Ackerman, infine le inquadrature stesse non sono evidentemente una sua licentia poetica, bensì il frammento di un gioco giocato nella lingua della fotografia e allo stesso tempo con

il… destinatario cui la Pajonk propone una descrizione del mondo filtrato non solo dalla reflex,

bensì e innanzi tutto dal suo proprio “specchio” – quello specchio che ciascuno di noi porta con se.



“Vivere” – è questo il titolo della mostra più recente di Izabella Pajonk.

Guardando le fotografie e decifrando il messaggio di tutto il ciclo giungiamo alla conclusione che “vivere” significa anche “vivere intensamente”. Correre avanti a sé con le mani levate in alto come possiamo vedere nel lavoro intitolato “Run – Man –Rain”. I passi tuttavia conducono sia all’Interno che all’Esterno. Se osserviamo questi lavori con maggior attenzione, non possiamo fare a meno di notare che questa “apertura” è in realtà un gesto che rifiuta e chiude. L’intimità viene infatti sottoposta a un processo di mediazione e cesello visuale che fa sì che venga chiaramente percepito il distacco dal mondo e dal modello. Ciò ha luogo innanzitutto grazie all’azione della luce che è artificiale come nell’iconostasi. E non fa differenza in questo senso che le fotografie della mostra “Vivere” siano state eseguite a Bologna, a Milano e a Genova. È evidente e – a quanto pare motivato – che l’autrice non ha voluto entrare nella topica della “luce italiana”, così densa di riferimenti simbolici. In suo luogo ha utilizzato procedimenti di coloritura. Quasi in ogni fotografia cade sulle persone e sugli oggetti un fascio di colore ocra di densità variabile, proveniente da ogni luogo e da nessuno. Come noto, questo colore possiede connotati alchemici, la sua intensità è conseguenza di un processo di ossigenazione. Nel ciclo “Vivere” si percepisce qualcosa di questa metamorfosi e la dinamica delle tensioni delle immagini è legata senza dubbio al contesto dell’Interno e dell’Esterno.


Da una parte quindi le fotografie visualizzano emozioni e stati di trans, nei quali versano le persone ritratte. E benché coinvolti nel gioco (ora in un gioco, ora in un’interpretata solitudine), si può aver l’impressione che tutto in questo mondo si svolga sul “trapezio” tra arte, vita e morte.

Nondimeno si può qui trovare anche dell’erotismo nascosto, rappresentato tuttavia più nella forma

che nel contenuto. Indipendentemente da una certa dramaticità la Pajonk non ricorre a mezzi drastici. Pertanto il pubblico non verrà scosso dall’immagine delle “interiora” – in queste fotografie non troviamo sangue, escrementi o qualunque derivato della decomposizione che sono stati così spesso una trovata per far comparsa sulle riviste fotografiche…


D’altra parte però il mondo di “Vivere” è immerso in un flash permanente che sembra essere un’emanazione sottocutanea, anzi ancor più profonda e – cosa stupefacente – un’ evocazione proveniente dall’artista. Quindi – come si può facilmente immaginare – la Pajonk ha ritratto in primo luogo se stessa (il proprio “specchio”) e successivamente è passata ad occuparsi dell’ “aura” occasionale (articolata nel gesto e nella recezione dello “specchio” della rappresentazione). Quest’ultimo contesto – il contesto dell’aura e di una particolare “auralità” – che ad alcuni osservatori può sembrare addirittura il motivo dominante dei lavori, è al contempo un segno distintivo e un indizio. L’aura – in quanto probabilmente narrazione dominante del ciclo “Vivere” – assolve qui a una duplice funzione: rimanda ai cliché visuali del contesto, ma allo stesso tempo rimane un punctum interno delle fotografie. Il suo discorso conduce attraverso l’incidentalità della luce, della quale si circonda la Pajonk e che emana dalla lingua nella quale ci parlano questi lavori.


Se torniamo alla rappresentazione, se gettiamo per un istante uno sguardo allo scenario diseredato

e solitario delle vie deserte o degli interni nonché alla rete del cielo opaco, nel quale vano sarebbe cercare il sole, la luna e le stelle (c’è qui qualcosa della soffocante atmosfera che possiamo incontrare nelle opere di Nan Goldin), si vedrà facilmente, quanto tutto in questo mondo sia parte di uno spettacolo. Ciò ha luogo sul piano aneddotico, ma viene messo in evidenza al contempo nella struttura stessa della fotografia. La teatralizzazione riguarda sia il modo con cui viene rappresentata la persona ritratta, sia lo stile del ritratto. Il mondo dei “cosmetici” del mondo è articolato in bellezza della maschera e della mascherata. È una sottile ragnatela, nella quale l’autrice avvolge intere superfici del mondo rappresentato. L’uomo che corre sotto la pioggia, le pietre del selciato, la lampada sospesa sui fili spinati non sono individualizzati. Il dettaglio che l’artista riporta è immerso in una nebbia ocra, diviene così un frammento di eternità che si estende sull’ hic et nunc. Una cosa simile avviene col tempo che viene sospeso o “addolcito”. Neppure l’orologio ne indica il passaggio – è solo un requisito delle rappresentazioni.


In luogo dell’autenticità e del documentalismo fa la comparsa in questo mondo il “coturno”.

Come in De Chirico, ne è responsabile la scenografia delle gallerie, delle grandi colonne, delle facciate corrose, degli ombrosi atrii e dei vicoli, la cui architettura è una sorta di canto serale della dolce geometria. Benché Pajonk mostri enclavi di città e brandelli di cielo, non sono questi gli elementi delo spazio aperto, bensì i paragrafi di un “testo” d’autore. Tutti i corridoi e gli interni conducono all’autrice. Di conseguenza l’esibizionismo di queste opere è espresso proprio dal loro raffinato manierismo che a qualcuno può dare fastidio o… affascinare.


In “Vivere” il mondo ha solo in apparenza una dimensione tellurica. Le sue assi si intrecciano in tutte le direzioni e si differenziano, benché la “penna” dell’artista scriva con un inchiostro molto ben definito. In effetti è questa la scrittura di un soggetto. Nella materia della sua identità sono nascoste sia le emozioni che la funzione di “scrittura” delle fotografie. Allo stesso tempo però questa trovata un po’ postmoderna è iscritta in una convenzione molto modernistica.


I graffiti sui muri, le cifre sul quadrante del grande orologio, la gesticolazione dei passanti sono tutte lettere, parole, frasi rivestite di un abito visuale. Non ci facciamo trarre in inganno però dalla narrazione dei melancolici mondi intrisi dell’apparenza di un assonnato carnevale. L’oniricità e la desolazione sono qui come mantra, come il ticchettio dei mulinelli di preghiera, che la Pajonk faceva girare durante

i suoi vagabondaggi in Estremo Oriente. Tornano con tutta evidenza come echi degli anni di erranza.



L’erudizione dell’artista può forse stancare o allontanare. Per dar vita al mondo da lei creato bisogna cambiare lo stile di lettura e “entrare” nella realtà del carnevale, nel quale lo scopo del gioco non è l’aderenza alla realtà e al visibile, bensì la messa in dubbio del suo status.

Non si tratta qui di sangue, ma di una calcografia del corpo, del cielo e della pietra…



Roman Lewandowski

Cracovia, 2005

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